Thor: Love and Thunder – Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare Taika Waititi

Thor: Love and Thunder – Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare Taika Waititi

Chi vi scrive non è mai stato un fan di Thor: Ragnarok: come dimenticare quell’ormai remoto giorno del 2017 in cui il sottoscritto entrò in sala aspettandosi un film dedicato all’evento più epico ed apocalittico della storia editoriale del Dio del Tuono, per poi ritrovarsi davanti quello che sembrava un mix tra una puntata di Futurama e un brutto film con Adam Sandler.

Inutile dire che una tale esperienza visiva portò chi vi scrive a farsi un’idea totalmente negativa del regista neozelandese, visto da buona parte del pubblico come un James Gunn di serie B, costantemente intento a infarcire le sue opere di umorismo surreale e demenziale senza però essere capace di controbilanciarlo con la fortissima emotività caratteristica dell’autore dei Guardiani della Galassia.

Che ingenui.

Non avevamo ancora capito che tipo di regista fosse Taika Waititi.

Eravamo ancora attaccati all’idea di un film di Thor che fosse un adattamento del personaggio fumettistico, non avendo ancora compreso che Thor: Ragnarok era a tutti gli effetti un film iconoclasta, che piuttosto che ispirarsi alla controparte cartacea preferiva di gran lunga distruggere ciò che era stato costruito nei due film precedenti (ossia pochissimo). Con quella pellicola, era come se Waititi dicesse al pubblico che se non avessero voluto prendere sul serio Thor, allora non si sarebbe più preso sul serio neanche da solo.

Ed ecco che col suo film il regista compie una notevole operazione di metacritica, sbattendo in faccia a Marvel la sua pessima gestione dell’arco narrativo del Figlio di Odino, e ricordando all’intero genere dei cinecomics quell’involontaria ridicolaggine che un tizio in calzamaglia si porta inevitabilmente e inconsciamente dietro, ma che il pubblico ha gradualmente dimenticato man mano che il filone acquisiva popolarità.

Thor: Love and Thunder però, lo sapevamo da subito che sarebbe stato un film diverso.

Forse perché con Jojo Rabbit, Waititi ha dimostrato di saper gestire con efficacia anche tematiche più serie e delicate, cosa che si sposava alla perfezione con la scelta di adattare la run fumettistica di Jason Aaron dedicata alla battaglia di Jane Foster contro il cancro, e la sua trasformazione nella Potente Thor.

O forse perché non essendo il finale di una trilogia, questo film avrebbe rappresentato l’inizio di un nuovo corso per il Dio del Tuono estendendo la cosmologia dell’universo Marvel, motivo per cui avrebbe dovuto creare qualcosa di nuovo invece che distruggere qualcosa di vecchio.

Ma il risultato finale è stato quanto di più simile, e al tempo stesso quanto di più distante si potesse fare rispetto a Thor: Ragnarok.

Se volete sapere in che senso, proseguite nella lettura di questo articolo, per stabilire insieme se Thor: Love and Thunder è effettivamente un film degno.

Storia d’amore e di martello

Questo è uno strano sequel.

Laddove il sequel perfetto dovrebbe avere gli stessi pregi del film precedente (possibilmente ampliati) e nessuno dei suoi difetti, Thor: Love and Thunder presenta (ampliandoli) gli stessi difetti di Thor: Ragnarok, accompagnandoli con dei pregi che rendono la visione molto più gradevole.

Nello specifico, il peggior difetto di Ragnarok stava nella sua demenzialità gratuita che andava a sacrificare tutti i momenti potenzialmente epici della pellicola per strappare una risata in più (persino la stessa distruzione di Asgard veniva accompagnata da una gag), cosa che impediva allo spettatore di empatizzare realmente con i personaggi e provare un qualunque tipo di tensione narrativa.

Thor: Love and Thunder invece è diverso: in questo film troverete la stessa demenzialità di Ragnarok, se non di più, ma troverete anche una delle sottotrame romantiche più riuscite dell’intero franchise, sequenze action epiche che vi faranno letteralmente saltare sulla sedia e una drammaticità tanto riuscita quanto inaspettata (è infatti il primo film del MCU a mostrare la morte di un bambino).

La vera abilità di Waititi non sta solo nella sua capacità di far coesistere queste quattro anime all’interno dello stesso film, ma nel far sì che queste si integrino perfettamente tra loro esaltandosi a vicenda, talvolta addirittura nella stessa scena.

Questo aspetto del film si riflette soprattutto nella relazione tra Thor e Jane Foster, che qui non sarebbe molto più efficace che in qualunque altro film della saga se non fosse proprio per il fortissimo umorismo inserito nelle loro scene, e nella rappresentazione degli dèi (sui quali spicca l’edonistico Zeus di Russell Crowe), raffigurati come esseri estremamente stupidi e meschini proprio per motivare l’odio che l’antagonista Gorr prova nei loro riguardi.

Un umorismo non gratuito dunque (almeno non sempre), necessario per lo sviluppo di certi personaggi e svolte di trama, e ben integrato persino nelle scene d’azione, che il regista carica di una tamarragine e di un’esagerazione semplicemente irresistibili, e accompagnate da una colonna sonora estremamente rock sulla quale troneggiano i brani dei Guns N’ Roses, verso i quali questo film sembra essere un vero e proprio tributo.

Le due anime del film di Waititi si palesano anche da un punto di vista prettamente grafico: durante la visione si alternano un’estetica estremamente colorata, brillante e fantasiosa, ed un’altra molto più cupa e alienante, caratterizzata da un uso del bianco e nero che rimanda addirittura a Sin City.

Siamo dunque di fronte a un film perfetto? All’esperienza cinematografica definitiva dedicata a Thor?

Neanche lontanamente, e adesso spieghiamo perché.

Cercasi trama disperatamente

Il primo difetto di Thor: Love and Thunder che salta all’occhio è la trama: sebbene sia gestita in maniera migliore e più lineare rispetto a Thor: Ragnarok, nel quale era divisa in due tronconi netti, uno dedicato ad Asgard e uno a Sakaar, neanche integrati particolarmente bene tra di loro, qui l’intreccio è talmente semplice e lineare da sembrare a malapena abbozzato.

Se all’interno di questa recensione non troverete alcun riferimento agli avvenimenti della trama non è tanto perché ci sia chissà che colpo di scena da tenere nascosto, ma perché soltanto con mezza frase rischiamo di spoilerarvi tutto quanto c’è da sapere sulla pellicola.

In generale è evidente, come dichiarato anche da Natalie Portman, come ore e ore di materiale siano state tagliate dal final cut, e a fare le spese di ciò è il ritmo del racconto, decisamente troppo rapido per farci realmente percepire il peso degli eventi (pochi) del film, ma soprattutto il suo antagonista, che sebbene ben caratterizzato, ben motivato, e brillantemente interpretato da Christian Bale, risulta tremendamente sprecato visto l’esiguo minutaggio riservatogli, buona parte del quale viene impiegato per fargli ripetere in maniera ossessiva concetti già chiari dalla primissima scena e per fargli contorcere il viso in espressioni a metà strada fra il Willem Dafoe e il Jared Leto.

Un altro evidente difetto del film ce lo portiamo dietro direttamente da Ragnarok: la mancata operazione di worldbuilding.

Il continuo avvicendarsi di autori radicalmente diversi tra loro alla regia dei film del Dio del Tuono hanno finito per dare alla saga, e al mondo nella quale si svolge, una coerenza paragonabile a quella di un politico italiano: dopo due film passati a dire che gli asgardiani non sono dèi dotati di poteri magici, ma solo alieni con una scienza molto evoluta, arriva Taika Waititi a dirci letteralmente tutto il contrario, e Love and Thunder non gestisce questo aspetto meglio del predecessore.

La pellicola ci rivela infatti che all’interno del cosmo Marvel non solo convivono tutte le divinità di tutte le religioni della storia umana, ma anche di quelle aliene, ma tratta il tutto come fosse qualcosa di scontato che non vale la pena spiegare.

Perché esistono gli dèi? Chi li ha creati? Cosa li differenzia rispetto a un alieno molto potente come poteva essere Thanos? Perché esistono più dèi dello stesso elemento? Perché non abbiamo mai sentito nominare neanche uno di loro nei capitoli precedenti?

Piuttosto che rispondere a queste domande il film preferisce perdere tempo ricercato in battute e gag già di per sé abbondanti, rendendo dunque difficile inquadrare il contesto nel quale si muovono i nostri eroi.

La brutta abitudine di Waititi di non delineare il mondo nel quale si svolgono i suoi film si riflette anche su svariate svolte della trama: per far funzionare alcuni passaggi dell’intreccio, il regista introduce ex novo dei nuovi personaggi solo con un paio di frasi, mentre altri rivelano abilità mai mostrate prima (come nel caso di Mjolnir e Stormbreaker, la cui rappresentazione come oggetti dotati di una coscienza propria costituisce uno degli elementi più stucchevoli del lungometraggio), finché il tono scanzonato e folle del film non diviene il deus ex machina per giustificare letteralmente qualunque forzatura o illogicità.

Si arriva al punto in cui se anche il film dovesse concludersi con l’arrivo di un maiale parlante dal manto arcobaleno che cancella tutti gli eventi della storia con un colpo di bacchetta magica, probabilmente nessuno nel pubblico si stupirebbe più di tanto, e questo la dice lunga su come il mondo di Taika Waititi sia tanto colorato e intrattenente quanto inconsistente.

E questa inconsistenza si ricollega all’ultimo principale difetto di Love and Thunder, ossia la volontà del regista di cogliere sempre in contropiede il pubblico: sebbene questo possa essere considerato un pregio quando si tratta di rivelare chi è buono e chi è cattivo o di decretare chi vive e chi muore, finisce per disorientare il pubblico piuttosto che sorprenderlo, quando si parla di determinate svolte della trama.

Basti pensare al finale, totalmente incentrato sul rapporto fra Thor e uno specifico personaggio comparso in una sola scena del film, cosa che rende difficile esserne totalmente coinvolti.

Insomma Thor: Love and Thunder, è destinato ad essere controverso.

È un sequel superiore al predecessore, ma non per i motivi che sarebbe lecito aspettarsi.

È un’opera che già adesso sta dividendo in maniera nettissima critica e pubblico, motivo per cui chi vi scrive non perderà tempo a invitarvi a non seppellirlo e a non santificarlo, perché è il film stesso a rifiutare qualunque mezza misura.

È un prodotto che offre buon intrattenimento, ma anche esagerazioni e forzature che non giovano allo sviluppo dei suoi protagonisti.

È un film che eccelle dal punto di vista del coinvolgimento emotivo e dell’esperienza visiva, ma fallisce dal punto di vista della narrazione.

Ma è anche sicuramente l’inizio di un nuovo corso per un personaggio che ha ancora molto da dire, e che se non verrà fagocitato dalle fisime di un regista tanto abile quanto sregolato, saprà sicuramente regalarci un arco narrativo soddisfacente, e finalmente dotato di quella coerenza stilistica che finora è mancata alla saga del Figlio di Odino.



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di Ivan Guidi
www.2duerighe.com
2022-07-09 15:35:30 ,

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